Giornata della Memoria, un Antidoto Sempre Meno Efficace
Concorsi nelle scuole, visite con viaggi fin nei campi di sterminio, mostre, spettacoli teatrali e concerti, presentazioni di libri, manifestazioni sportive, discorsi ufficiali: la varietà non manca nella celebrazione della Giornata della Memoria che ha caratterizzato la scorsa settimana e ancora questi giorni, in Italia come nel resto d’Europa.
Tanta inventiva dovrebbe evitare la noia della ripetitività e declina le inesauribili possibilità di come raccontare la più atroce delle storie europee e dell’umanità. Così facendo, la Giornata della Memoria sarebbe diventata addirittura un fenomeno di moda, l’appuntamento da non perdere.
Una data venerata, forse il sintomo che ancora si deve fare i conti con quella caduta irreparabile della moralità europea e con un “non credere ai propri occhi” al cospetto di una vicenda fin troppo reale ma inimmaginabile per modalità e numeri. Vorrà pur dire qualcosa che negli ultimi venti anni sono stati pubblicati più libri sulla Shoah che non nei cinquanta anni precedenti, quando la ferita era ancora più aperta e i sopravvissuti assai più numerosi.
Avanti col ricordo, dunque. Anche se con un tale attivismo, il rischio della confusione è ricorrente, e tra le pieghe dei programmi si trovano accostamenti improbabili, abusi della parola “genocidio” applicata con faciloneria ad altri contesti, perfino strumentalizzazioni in chiave velatamente anti-semita.
Ma in tanto commemorare, è sfuggito il vero dato del 27 gennaio: secondo un sondaggio Swg, realizzato con interviste tra il 12 e il 20 gennaio, giorni della massima esposizione mediatica della ricorrenza, il numero gli italiani che considerano che la Giornata della Memoria “non serve più a nulla” è passato dall’11% del 2014 al 23% di quest’anno. Si fanno largo scetticismo, fastidio o addirittura ostilità. Al cospetto degli sforzi profusi, un vero fallimento – ricordare non serve più.
Oppure ricordiamo male, dimostrandoci troppo permissivi con le nostre responsabilità, mettendole al riparo della partecipazione alla Giornata della Memoria, un biglietto annuale per ripulirsi la coscienza. Mentre molti antisemiti italiani che portarono alle leggi razziali furono poi premiati e continuano a essere oggetto di riverenze – gli si intitolano scuole, strade, policlinici, tanto, secondo una certa vulgata, fecero tutto i nazisti.
(Detto per inciso: altrove non va meglio. È paradossale che il Museo dell’Olocausto di Washington continua a essere uno dei dieci musei americani più visitati – ma in passato lo era ancora di più – in un paese che oggi pare ignorante non dico della solidarietà, ma anche della sua storia nazionale.)
A oltre quindici anni della sua istituzione, una valutazione ex-post si impone: la memoria della Shoah è un antidoto doveroso ma non sufficiente. Non lo fu nel 1994, quando l’Europa assistette inerme al genocidio dei tutsi (la casa editrice Giuntina, specializzata sulla letteratura dell’olocausto, ha pubblicato “Shoah e Ruanda, due lezioni parallele”, che ricolloca non a settanta anni fa ma in un passato recentissimo le “amnesie” e le vulnerabilità europee alle perse con un genocidio).
Non lo è oggi, quando un antisemitismo strisciante o anche esplicito, torna alla ribalta negli stadi (impunito), nelle barzellette disgustose, nei blog, o nel relativizzare aggressioni. Sullo sfondo, ci rimette anche il progetto di un’Europa unita. Perché ritengo che esista un rapporto diretto tra stanchezza della memoria della Shoah e stanchezza del progetto di unione politica europea: venendo meno la prima vera memoria condivisa europea, viene meno anche il futuro.
Ma allora, ci si chiede, a cosa serve? Parafrasando Fortini, ebreo fiorentino, il ricordo forse non muta nulla. Nulla è sicuro. Ma ricorda.