VIOLENZA DI GENERE, L’INFORMAZIONE CHE NON C’E’
Esiste secondo me, una deriva molto più perniciosa di quella della cronaca nera che infesta i media in questa torrida estate, ed è l’incremento incontrollato delle informazioni unita all’innalzamento del volume generale del dibattito pubblico sui social. Tanti sono gli argomenti di cui discutere, spesso su piani logici diversi ma confusi tra loro in un caos comunicativo che anziché supportare la comprensione, ne sgretola i presupposti impedendola quasi totalmente e – aggiungo – rendendo di fatto molto più controllabile l’opinione pubblica generale… Si susseguono violenze, commenti alle violenze, indignazione sui commenti alle violenze e a sua volta critiche dell’indignazione sui commenti alle violenze, in una sorta di spirale senza fine dove l’unico scopo sembra l’esserci e dire la propria, a prescindere; dove la cosa più opportuna sarebbe viceversa, autorizzarsi momenti di ascolto, di sano silenzio, composto e riflessivo. Una pausa che permetta di riordinare le idee, classificando i vari temi e attribuendoli alla categoria appropriata: violenza di genere, integrazione culturale, misoginia, religione, idee politiche, partecipazione civica, ecc. Oggi viceversa, quasi costretti a dare istantaneamente un parere su tutto, ci sentiamo spesso confusi o, specularmente, sicurissimi delle nostre idee;gli estremismi aumentano e con esse il tessuto sociale va in frantumi. Non a caso le crescenti polarizzazioni sociali e i populismi figurano in vetta alla classifica dei rischi globali stilata annualmente in occasione del World Economic Forum di Davos, appena sotto al cambiamento climatico e seguiti a ruota dalla crescente dipendenza da internet (fonte http://reports.weforum.org/global-risks-2017/part-1-global-risks-2017/) .
Riguardo ai fatti di Rimini, è già stato detto a sufficienza nel merito, ed è già stata data sufficiente rilevanza ad un commento infelice, probabilmente buttato lì a casaccio dal “mediatore”, con quel misto letale di ignoranza e superficialità che spesso contraddistingue la comunicazione sui social. Qui infatti, l’obiettivo principale sembra essere la visibilità, il numero di contatti e di “like” che designano i nuovi parametri dell’autorevolezza in salsa virtuale. Mi pare inoltre riduttivo parlare di scontro di culture o di religioni, dove il violento non solo non ne ha neppure mezza, come dice Gramellini, ma non si dichiara musulmano. Non perché non esista un problema di integrazione tra visioni differenti delle relazioni uomo-donna o della vita in generale, ma perché in questo caso stiamo parlando di un crimine che nulla ha a che fare con la visione religiosa, ma molto ha a che fare con una visione maschile cavernicola amplificata dal mix letale di cui sopra. Per questo occorre risalire alla cornice entro cui questo fatti avvengono, evitando la tentazione di individuare un facile capro espiatorio (il web, i giornalisti, l’islam, gli immigrati…) su cui proiettare tutta la frustrazione derivante dal non capire e non controllare la situazione. Ogni elemento è in realtà influente, ma non sufficiente in sé a spiegare la complessità dei fenomeni. Ivi compreso il fatto che ci potremmo legittimamente domandare quale sia la “verità”… o meglio se si possa ancora parlare di “verità” in un mondo dove la presenza fisica è inferiore a quella virtuale, dove le informazioni erogate si formano più spesso sul web che sul campo…
Sarà forse utile quindi riflettere da un lato sugli effetti che il web provoca sulla capacità di comprendere e valutare gli eventi e partecipare al dibattito generale, dall’altro sugli effetti (pervasivi) che provoca sulla costruzione identitaria dei giovani e sul radicamento di un sistema di valori consistente e resiliente.
Partiamo dal fatto principale: una sequenza di stupri ha contraddistinto le ultime settimane, senza distinzioni di età o etnìa, di nazionalità o posizione sociale: dalla coppia di turisti stranieri oltraggiati a Rimini da un branco di nordafricani nativi italiani, alla donna ottantenne violentata in un parco milanese da un presunto straniero, alle ragazze americane pare abusate da due italiani in divisa. È impossibile tracciare un denominatore comune sul piano anagrafico o culturale. Gli unici elementi comuni sono da un lato la violenza, come veicolo per soddisfare non solo mere pulsioni sessuali, ma un più arcaico desiderio di possesso/dominio che confermi la propria (fragile) virilità; dall’altro il circo mediatico entro cui questi fatti vengono pensati, agiti e commentati.
Non mi soffermerò sul primo punto: la “fragilità” attuale degli uomini e la crisi identitaria nella trasformazione dei ruoli interni alla coppia e nella “competizione” con le donne, ove queste sembrano conquistare in modo inarrestabile posizioni sociali precedentemente ad appannaggio maschile. Si tratta di temi complessi che necessitano di analisi accurate e supportate da ricerche statistiche, onde evitare di scivolare in facili cliché. Mi accontenterò dunque di tenerla a mente, sullo sfondo, ricordando che nel corso dei secoli, i cambiamenti sociali hanno sempre messo maggiormente in crisi l’identità maschile rispetto a quella femminile.
Mi soffermerò viceversa sul secondo punto: il contesto virtuale e la sua influenza, non tanto sulla formazione dell’opinione pubblica ma soprattutto sull’identità individuale e sull’attivazione di pulsioni che – in altre circostanze – rimarrebbero relegate alla fantasia. Ci siamo mai chiesti, ad esempio, che triangolazione esista tra la pornografia liberamente accessibile online, il potere virale dei social media con l’ansia di visibilità che porta con sé, e la violenza concretamente agita?
Ovviamente non esistono relazioni lineari di causa-effetto tra pornografia e violenza, né tra social media e vuoto esistenziale o crisi identitaria… ciò non toglie che esistano delle correlazioni significative tra tutti questi elementi, specie nei giovani. Proviamo a partire da alcuni dati: secondo una ricerca fatta sugli adolescenti nel 2015, risulta che la sessualità viene confusa con lo stupro e soprattutto viene totalmente disgiunta dalla relazione affettiva. Il sesso mediato dai video pornografici, facilmente accessibili da qualsiasi bambino smartphone dotato, veicola un’idea della sessualità distorta e spesso basata sul dominio. In uno studio della dr.ssa Bridge (University of Arkansas, Fayetteville, USA), et al. pubblicato dalla rivista Violence Against Women, è risultato che in 304 scene di film pornografici analizzate, l’88,2% conteneva aggressioni fisiche, mentre il 48,7% delle scene aggressioni verbali. Ora, è risaputo che nelle fantasie sessuali maschili e femminili, l’immaginario violento agisce spesso come attivatore del desiderio o intensificatore del piacere… ma si tratta di fantasie che debbono rimanere accuratamente custodite nell’immaginazione o comunque nell’intimità della relazione di coppia. La pornografia viceversa la rende esplicita e realistica anche a chi, non avendo ancora vissuto una sessualità autentica e piena, la confonde con il reale e crede di poterla agire a prescindere, supponendo che tanto, alla fine, “una volta che entra il pisello, la donna si calma e si gode”, esattamente come nei video. Una primitiva “cultura del buco” che la pornografia non fa altro che esacerbare. Di questa frase peraltro mi colpisce l’impersonale, “si gode”, che lascia seri dubbi sul beneficiario di cotanto piacere, e mi colpisce che il malcapitato non abbia tentato almeno di giustificarsi avocando a sé il piacere tratto dalla penetrazione “a prescindere”, provocando magari un sussulto di orgoglio negli Uomini che non si riconoscono in una forma di godimento puramente meccanica e totalmente slegata dalla reciprocità dell’atto. Quando a questi dati, cioè la confusione tra sesso e stupro e una visione fondamentalmente ginnica del piacere completamente slegato dalla dimensione affettiva, aggiungiamo il desiderio di visibilità che i social media amplificano, il gioco è fatto. “Appaio quindi esisto” si conferma l’evoluzione postmoderna della formula Cartesiana…
Nello stesso tempo, la sovrabbondanza di informazioni presenti sul web unita alla cronica mancanza di tempo per approfondire e al nostro innato bisogno, comunque, di capire ed esprimere un parere, produce un mix letale che si traduce in facili riduzioni e integralismi.
Mi domando infine quanto la (sovra)informazione attuale influenzi la generazione degli eventi e viceversa, quanto il raccontare con dovizia di particolari (inutili) ogni accadimento negativo, comporti lo sdoganamento di violenze inimmaginabili provocando fenomeni imitativi a catena, agiti non tanto per un obiettivo, ma con la violenza inaudita della superficialità: per “vedere che effetto fa”, con l’idea– come in un videogame o su un social – che se poi non piace, in un clic sparisce tutto e volendo dimentichiamo anche ciò che abbiamo fatto/visto. Quello che mi colpisce infatti, al netto della brutalità degli atti, è la malefica banalità con cui sono compiuti, come per gioco o – peggio – per postare un video e ricavarne milioni di visualizzazioni. Totalmente incapaci di prevedere le conseguenze (reali) a posteriori per sé, per i propri cari e, ovviamente, per le vittime. Questi ragazzi sembrano “assenti”; quasi sempre inconsapevoli della gravità di quanto agito, considerano la violenza sessuale come una bravata tra amici, poco più grave di una mano sul culo; spesso ridono delle disgrazie altrui come si ride di uno sgambetto col gelato in mano…
Tutto ciò tradisce due aspetti che, a mio avviso, sono denominatore comune di quasi tutte le violenze contro la persona cui assistiamo quotidianamente: da un lato una profonda mancanza di SENSO nella propria vita, dall’altro un diffuso deficit di EMPATIA nei confronti dell’altro. Se la nostra vita manca di senso, infatti, manca di una progettualità, quindi viviamo alla giornata con l’unico obiettivo, freudianamente infantile, di ricercare il piacere/evitare il dolore; non abbiamo nulla da perdere… e questo è senza dubbio l’elemento più pericoloso, perché chi non ha nulla da perdere è disposto a tutto ed è facilmente influenzabile. Il deficit di empatia d’altro canto, è probabilmente influenzato dalla crescente attitudine a relazionarsi tramite i social media piuttosto che nell’incontro reale; sappiamo infatti che l’efficacia della comunicazione dipende per il 93% da elementi extra verbali quali espressioni facciali, tono della voce, prossemica, postura, ecc. Tutti elementi che contribuiscono ad una conoscenza più profonda e autentica dell’altro e che sono quasi totalmente assenti negli strumenti digitali. Un individuo che vive alla giornata, senza obiettivi, senza veri affetti, senza uno scopo nella vita o una passione da inseguire, avendo comunque – come tutti – un innato bisogno di conferme e di visibilità, cercherà di soddisfare questi bisogni nella (più facile) dimensione virtuale. Ma da quella lente ricaverà una visione distorta della realtà, amplificata o ridotta, non solo in base alle sue fragilità psichiche, ma sulla base di algoritmi che riflettono le sue stesse scelte. Su internet infatti, per motivi che non starò qui a specificare, tendiamo generalmente a rinforzare le nostre opinioni, non a cambiare idea o a trovare un equilibrio intermedio.
Riassumiamo dunque schematicamente i passaggi fondamentali del ragionamento per tentare delle considerazioni conclusive:
- Ogni individuo costruisce la propria identità nel contesto sociale, confrontandosi con gli altri ed esprimendo il proprio parere; per far questo ha bisogno di dare un senso alla propria esistenza e di trovare risposte ai propri interrogativi;
- Il web offre una facile scorciatoia a chi non riesce a soddisfare pienamente questi bisogni nella dimensione reale, fornendo un’identità virtuale surrogata e amplificando il bisogno di conferme e visibilità ad essa correlate;
- Nella costruzione identitaria è basilare il rapporto con l’altro genere e lo sviluppo di una sessualità piena e consapevole; la crescente disponibilità di video pornografici gratuiti sul web, ha reso la rappresentazione del sesso esplicita e accessibile a chiunque, incentivandone la fruizione anche da parte degli adolescenti, naturalmente curiosi e sempre più ansiosi di misurarsi con la loro virilità;
- la pornografia però, oltre a generare dipendenza da dopamina con conseguente bisogno d’innalzamento progressivo dello stimolo, induce una visione della sessualità meccanica, genitale e completamente slegata dall’affettività e veicola inoltre una forte componente di aggressività; alcuni studi infatti, hanno mostrato una correlazione tra la fruizione abituale di materiale pornografico e comportamenti violenti verso le donne.
Se a tutto ciò aggiungiamo l’ansia di visibilità indotta dai social media, la marginalità sociale di categorie non ancora perfettamente integrate e la mancanza di politiche coerenti e adeguate alla complessità dei fenomeni attuali, il gioco è fatto.
Cosa possiamo fare dunque per avviare un processo di graduale correzione? Impossibile una risposta esaustiva in questo post, ma alcune suggestioni sono doverose.
Le istituzioni devono mettere in campo seri investimenti sull’educazione: verso i genitori, restituendo tempo alla cura della famiglia e orientandoli verso modelli educativi adeguati alla molteplicità degli stimoli attuali; verso i minori, insegnando loro a distinguere mondo reale e virtuale, traendo i massimi benefici da entrambe le dimensioni; educando sin da piccoli alle emozioni e all’affettività, per prevenire in tempo il radicarsi di una (sub)cultura relazionale che vede l’altro come puro oggetto per la soddisfazione delle proprie pulsioni, e non come soggetto autonomo e con una sua volontà; costruendo parametri valutativi del vivere più qualitativi che quantitativi e fondati su un sistema di valori resistente alle sirene incantatrici del web e della pornografia, ma comunque aperto ai continui cambiamenti in atto. Sul piano individuale, dobbiamo assumerci tutti la responsabilità, nel formarci un parere, di basarci su dati autorevoli, dedicando più tempo all’analisi, all’ascolto e alla riflessione, preliminari alla presa di posizione. Dobbiamo dedicare più tempo reale ai nostri figli, definendo all’interno della coppia genitoriale un modello educativo coerente da seguire, evitando continui cambiamenti di rotta e messaggi ambivalenti; parlando loro e fornendogli modelli adeguati basati sull’esperienza concreta.
Non si tratta quindi di stravolgimenti totali dei modelli precedenti, ma di “piccole” azioni costanti e coerenti che impongono ad ognuno, singolo o istituzione, di effettuare delle scelte precise, coerenti a una visione e da mantenere nel tempo. Si tratta insegnare (e apprendere) a porsi domande di senso, il “perché” prima del “come”; si tratta insegnare (e apprendere) a gestire il nostro tempo, scovandolo nei luoghi più nascosti come fosse una gemma preziosa e rara, ed economizzandolo definendo le priorità. Perché il TEMPO, quello si, è la vera ricchezza dell’epoca attuale e forse la vera sfida…