OLTRE BARDONECCHIA: 5 COSE DA FARE PER UNA LOTTA COMUNE AL TERRORISMO
La brutta storia di Bardonecchia sta tutta, come sempre, nei dettagli – tra accordi un po’ vecchi, mail non lette, tracotanze in divisa, ong ostacolate, permalosità nazionalistiche, treni comuni e frontiere labili. A leggere le rispettive versioni nei giornali francesi e italiani c’è da ridere, o disperarsi. A questo pare ridursi l’Europa, che nemmeno bussa per sapere se il bagno è occupato, e pronta a litigare.
Qualche giorno prima, proprio la Francia aveva patito un altro attacco mortale e si era difesa più col sacrificio di un gendarme eroico che con la certezza di un sentire e di un agire comune europei contro il terrorismo. Perché Bardonecchia ricorda che non ci siamo, in un’Europa ancora in balia di diffidenze reciproche – altro che “una sola volontà e un solo agire”, dall’economia all’immigrazione, e, prima di tutto, alla lotta contro un terrorismo ancora non domato.
Una situazione nella quale la cosa peggiore consisterebbe nell’imputarsi da una parte e dall’altra per l’abuso di potere applicato a un bagno, mentre invece anche incresciosi “episodi minori” dovrebbero ricordare che il vero confronto per un’azione europea comune deve essere su ben altre priorità. Limitandosi alla lotta al terrorismo, elenco cinque propositi per un’agenda unitaria.
Il primo, il più ostico: se guerra deve essere, che guerra sia. Ora che pare vinta, si rifletta sul fatto che la lotta militare contro lo Stato Islamico, che pure ha rivendicato quasi tutti gli attentati terroristici in Europa, non ha visto un vero impegno concertato dei paesi europei, ma solo alcune scelte isolate.
Dispiegare truppe è sempre una scelta impopolare e in genere da evitare: ha portato a disastri in Iraq e in Libia, costa in termini finanziari ed elettorali, violenta i nostri valori. Ma nemmeno, come con la Turchia rispetto all’immigrazione, l’Europa può pensare di esternalizzare le sue responsabilità, delegando, magari anche con i nostri soldi o qualche aereo, qualcun altro a fare la guerra al jihadismo – in ordine sparso e contraddittorio lo sono già stati i curdi, Assad, i turchi, gli iraniani, i russi, gli americani.
L’Europa ha bisogno di una sua difesa comune impegnata dove occorre, anche nel Sahara se serve. Finora siamo ancora agli sforzi nazionali sostenuti da contributi di altri paesi, con procedure non sempre lineari – come pare dimostrare la vicenda delle truppe italiane in Niger, non ancora dispiegate per difficoltà di vario genere.
Il secondo: passare in revisione il modus vivendi, così precario, con la Russia del più che longevo Putin. Tenere fermo il punto politico e i valori, ma trovare una ricucitura operativa con Mosca e i suoi alleati nella lotta contro comuni nemici – lo pensano in molti, ma pochi lo dicono – per privare il terrorismo islamista di una divisione di cui ha ampiamente beneficiato.
Il terzo: mettere al bando il “coordinamento” nei servizi, nelle indagini, nelle leggi. Procura e intelligence federali, subito. Ci vorrà tempo perché funzionino a dovere, ma più tardi si comincia e più alto sarà il prezzo da pagare. Continuare a muoversi col pestifero coordinamento tra ventotto paesi, e poi tra questi ventotto e i vari paesi amici, è un altro regalo a un jihadismo che invece opera in modo transnazionale e unito.
Non diversamente, non si aspetti ancora per dotarsi di una vera legislazione europea anti-terrorismo: incentivare il pentitismo, revocare la cittadinanza europea ai terroristi, punire le apologie ideologiche, confiscare i beni, uniformizzare le tipologie di reato.
Il quarto: aiutare un islam europeo. Rafforzare i rapporti con l’islam organizzato in Europa, favorendone la libertà di culto e l’integrazione culturale in una società laica, armonizzando alcuni meccanismi come la formazione e la nomina degli imam, il finanziamento internazionale, l’attività nel pieno rispetto dei valori e delle leggi europee. Aspetti rilevanti dove ogni paese Ue ha le sue regole, a volte in aperto contrasto con quelle del paese vicino.
Il quinto: non tacere sulla realtà di certe nostre strade. Ovunque, e non solo a Molenbeek o in alcune periferie parigine, si rimane sconcertati nel vedere alcuni giovani cittadini europei inclini a omertà e simpatia verso il radicalismo più violento. Vi sono pieghe della nostra società che vanno scrutate meglio – da chi parte per arruolarsi nelle milizie jihadiste a chi simpatizza e rilancia sui social network, malesseri mai sopiti e certezze fraintese.
Anziché chiudere gli occhi, come avvenuto in molti paesi, si cominci a capire cosa occorre nelle scuole, nell’informazione, nelle leggi, nell’organizzazione delle città, nella cultura, perché non si formi più nel cuore dell’Europa una sacca di accondiscendenza, se non peggio.
Cinque piani di lavoro non modesti ma complessi, per non limitarsi alla politica della solidarietà post-evento e dei cerotti. Aspetti diversi ma tutti indispensabili e fattibili: politiche che richiederanno tempo ma che dipendono solo da noi e dalla nostra intelligenza di uscire dalla retorica per passare ai fatti.
Se si intraprendesse davvero questo cammino, da europei sottoposti a un destino e a una minaccia comune, alzeremmo l’asticella e avremmo meno tempo e voglia di fare i prepotenti alla stazione di Bardonecchia e nel riaffermare la propria lesa sovranità – lo spettacolo perfetto per per la gioia di un terrorista nemico dell’Europa.