RIFORME SENZA DIRITTI: ARABIA SAUDITA 2030
Due eminenti attiviste per l’emancipazione femminile, Samar Badawi e Nassima al-Sadah, sono state arrestate in Arabia Saudita quest’estate. Da maggio sono almeno quindici le detenzioni di figure di alto profilo del movimento per i diritti umani, corredate da una aggressiva campagna che le dipinge come spie e agenti sovversivi per la destabilizzazione dello stato. Badawi è stata la prima a portare in giudizio il proprio tutore nel 2010, quando questi non le aveva concesso il permesso di sposare il compagno che si era scelta, e a fare causa all’ufficio elettorale della sua città di residenza, per non averle consentito di registrarsi, perorando la causa del suffragio universale. Al-Sadah è co-fondatrice del Centro Al-Adalah per i Diritti Umani e ha integrato il primo gruppo di candidate, dopo che le saudite avevano conquistato la facoltà di votare ed essere votate. I fermi hanno preceduto e seguito la sollevazione del divieto di guida per le donne in giugno, intorno alla quale il governo ha creato un evento mediatico, mentre per tutto contrario incriminava le stesse militanti che avevano a lungo lottato per l’obiettivo.
L’agenda riformista del principe ereditario Mohammad Bin Salman ha cominciato a smantellare alcune delle barriere che hanno escluso le donne dalla vita pubblica, come la proibizione di accedere a installazioni sportive e arruolarsi nell’esercito. L’auspicato transito da un’economia dipendente dal petrolio a una diversificata per il 2030, infatti, non potrà darsi senza poter contare sul lavoro di questa ingente fetta di popolazione. Il principe non sembra illuminato come parte della stampa si è affrettata a definire. Il messaggio è lampante: contenuto e passo dei cambiamenti sono dettati dalla corona e non c’è spazio per alcun tipo di dialogo, o negoziazione, con la società civile; e men che meno, riconoscimento del contributo alla storia e alla cultura dei movimenti progressisti locali, a cui le donne hanno significativamente concorso. Un’ulteriore equazione lo è altrettanto: i leader che tacitano con la forza i soggetti che dissentono dal proprio operato sono coscienti della discrepanza fra propaganda e verità e non fanno altro che mostrare debolezza politica. Un esempio medievale venne nel 2011 dal Qatar con la condanna all’ergastolo, per insulto all’emiro e incitamento alla rivolta, del poeta Mohammed al-‘Ajami, autore di liriche considerate ostili al regime (la sentenza è stata prima ridotta a quindici anni di reclusione, e poi revocata da una grazia reale nel 2016, sotto la spinta di una forte pressione globale).
Il Canada ha espresso preoccupazione per gli eventi e auspicato il rilascio di Samar Badawi e Nassima al-Sadah, provocando una reazione isterica di Riad che ne ha espulso l’ambasciatore, richiamato la propria rappresentanza diplomatica, e minacciato ulteriori sequele di ordine finanziario ed economico. Sono anche stati invitati ad abbandonare il paese i 12 mila studenti iscritti nel sistema scolastico canadese. Gli stessi Stati Uniti si sono uniti alla richiesta di chiarimenti del governo di Trudeau. Dal 2015 gli alleati storici dell’Arabia Saudita hanno evidenziato il caso di Raif Badawi, fratello di Samar, soggetto a punizioni corporali e una pesante condanna per aver esercitato libertà di espressione come blogger, e sollecitato con fermezza l’eliminazione di queste pratiche brutali e la revisione del giudicato. Washington pubblica a scadenza annuale un rapporto sui diritti umani, dove è sempre stato critico dell’Arabia Saudita, segnalando uccisioni extra-giudiziali, arresti arbitrari, torture, e incarceramenti senza dovuto processo, su base politica, così come la restrizione del diritto di associazione e riunione pacifica.
L’Italia, dal canto suo, nasconde la testa nella sabbia, e continua a prosperare nel commercio di armi. Sono state bombe Mk-80, prodotte in Sardegna, a piovere dall’aviazione saudita su 10 mila civili in Yemen, secondo i reperti rinvenuti dalla commissione di esperti dell’Onu. Un’inchiesta del New York Times denuncia un giro d’affari di 500 milioni di euro solo nel 2016. Negli ultimi tre anni, il passato governo avrebbe sestuplicato le autorizzazioni per le esportazioni, laddove sia i trattati internazionali sia la legge italiana bandiscono le transazioni con paesi coinvolti in violazioni dei diritti umani e conflitti violenti – incluso l’appoggio a gruppi terroristici, accertato nel caso dell’Arabia Saudita. Tre risoluzioni del parlamento europeo, votate ad ampia maggioranza, chiedono di porre un embargo e l’Italia rischia una condanna per favoreggiamento di crimini di guerra. Il nostro è l’unico stato membro che si è avvalso della clausola di riservatezza nell’ultima relazione presentata alle Nazioni Unite sulla compravendita di armamenti.
La visione di Mohammad Bin Salman per l’Arabia Saudita, e il connesso esperimento di modernizzazione, che nella retorica si fondano sull’impegno collettivo e un sogno comune, schiacciando un occhio all’agenda 2030 di sviluppo sostenibile dell’Onu, sono in realtà in lacerante contraddizione con il pervasivo controllo civile e politico della popolazione, l’invasione della privacy degli individui, e la repressione sistematica di quanti ne potrebbero costituire il futuro migliore (leggi Medio Oriente, il ruolo di Arabia Saudita, Iran e Stati Uniti e Fuoco incrociato sui diritti umani). Intollerabile è l’ipocrisia della monarchia nella mancata accettazione di un rinnovamento culturale in atto nel paese che sorpassa qualsiasi decreto si pretenda liberale; e odioso il cinismo di tutti coloro ne alimentano l’accanimento tirannico dentro e fuori i confini nazionali.