L’IMPASSE CATALANO
L’unica concessione del Partito socialista dei lavoratori di Pedro Sánchez ai separatisti è stata quella del trasferimento dei funzionari imputati di disobbedienza e prevaricazione in stabilimenti carcerari della Catalogna. Del resto, il raggruppamento di questi partiti nelle ultime elezioni regionali ha ottenuto il 47 per cento delle preferenze e la vittoria è andata a Ciudadanos, forte oppositore della secessione. Lo stesso referendum dell’ottobre del 2017 ha registrato un’affluenza limitata al 43 per cento e un sondaggio locale, della seconda metà dello scorso anno, mostra una netta divisione nella società con il 46.7 a favore e il 44.9 contro.
L’impasse è imperniato su un presupposto e un malinteso. Il primo è di ordine legale, in quanto la costituzione spagnola non consente di votare sull’indipendenza delle comunità, per cui il tribunale preposto ha dichiarato nulla la legge di indizione del plebiscito popolare, promulgata dal parlamento della Catalogna. Il secondo è di matrice demagogica, per il quale la sedicente repubblica catalana – proclamata senza dibattito e con il conseguente abbandono dell’aula dei partiti contrari, avrebbe potuto interloquire in forma diretta con l’Unione Europea e aspirare a un’adesione quasi automatica.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, già nel 2015, aveva chiarito che non era possibile appellarsi al diritto di autodeterminazione dei popoli, in quanto applicabile solo a territori coloniali od occupati – casi non riconducibili alle vicende della Catalogna, e nell’eventualità di un referendum il cui esito fosse per l’indipendenza, questo non avrebbe potuto essere riconosciuto dagli organismi internazionali. In Europa, le posizioni tranchant del parlamento e della commissione hanno invece chiarito che qualsiasi atto contrario alla costituzione di uno stato membro è un atto contrario all’Unione Europea ed è stata rifiutata la richiesta di mediazione inoltrata dall’allora presidente catalano, Puigdemont. L’assenza di un corso viabile ha finito per sparigliare anche la linea separatista e indebolire, Torra, eletto presidente nel 2018, a seguito del commissariamento della regione e la convocazione di nuove elezioni.
Meno di due settimane fa, il primo ministro è stato spazzato via dall’inefficacia legislativa della sua coalizione, a fronte di 180 seggi parlamentari su 350. A differenza del braccio di ferro di Rajoy, suo predecessore, aveva però aperto la strada a un dialogoper la risoluzione della più grande crisi costituzionale della Spagna nell’era post-franchista, che a partire dalla composizione del suo governo – sinistra populista di Podemos e separatismo catalano e basco, costituiva in larga misura la sua sopravvivenza. La visione era quella di una Spagna come stato multiculturale, attraverso una riconsiderazione a tutto campo dell’identità nazionale. Pensiero rivoluzionario in accostamento al tribalismo di questa congiuntura storica, basato su un sospetto crescente dell’altro, che degenera in alienazione reciproca.
Riferirsi alla Spagna come una nazione di nazioni, e l’apertura a emendamenti costituzionali che favorissero maggiori spazi di autonomia alle comunità catalana, basca e galiziana, è stato un tentativo coraggioso di mettere mano a una problematica a lungo procrastinata. Passare dalla negoziazione di accordi bilaterali a una riforma sistemica ha inoltre dimostrato capacità tattica, attaccando il nocciolo duro del secessionismo, ovvero la contestazione in base alla quale le aspirazioni progressiste dei territori siano frenate dal conservatorismo istituzionale del paese.
L’esperimento non ha convinto gli alleati e la Spagna andrà per la terza volta a elezioni politiche in meno di quattro anni. I partiti nazionalisti catalani e baschi si sono uniti ai propri diretti antagonisti di Ciudadanos contro l’approvazione della legge di bilancio del 2019 per far cadere l’esecutivo, ognuno in nome di una diversa idea di futuro, come avviene in democrazia, o magari nell’ennesima concrezione contemporanea della olocrazia di Polibio.