Discriminazione Razziale Nell’Era Obama
Al termine della gestione del primo presidente afro-americano degli Stati Uniti è tempo di bilanci e analisi sia del suo lascito, in un paese che ha visto mutare posizione e ruolo nell’ordine del mondo, sia della carica simbolica e la speranza di cambiamento, accese dalla sua prima elezione, in una società attraversata da laceranti brecce sociali e una feroce crisi economica. L’America post-razziale dell’entusiastico racconto mediatico internazionale è molto distante dalla realtà di una vasta sottoclasse nera alienata dalle risorse e negletta dalla politica. Barack Obama sarà ricordato come un grande presidente con gravi mancanze, e molte di queste identificabili nella maniera in cui ha affrontato, o ha evitato di affrontare, i problemi razziali. Tutto il mondo è stato toccato dalla sua conquista storica, ma molti, soprattutto negli Stati Uniti, e soprattutto fra gli afro-americani, sono vivamente frustrati dal suo operato.
Nel corso del suo primo mandato, Obama ha impegnato tutti gli sforzi nel salvataggio delle banche, lo stimolo all’economia, il riscatto dell’industria automobilistica, e l’approvazione della riforma della copertura assicurativa sanitaria, parte del programma del Partito Democratico dai tempi della presidenza di Bill Clinton. Solo verso la conclusione del secondo, ha utilizzato il suo potere esecutivo per iniziare a combattere la segregazione in materia di diritto alla casa e la formulazione discriminatoria delle politiche di governo. I suoi maggiori critici fra gli afro-americani lo additano per inadeguatezza nella lotta alla povertà, l’eliminazione dei ghetti e la protezione contro i crimini di natura razzista. La presidente del Congressional Black Caucus, Marcia Fudge, lo ha apertamente e ripetutamente ripreso per la scarsa diversità razziale delle sue scelte nelle nomine pubbliche, ma nonostante l’impegno in seguito versato, il suo record non è risultato migliore di quello di nessuno dei suoi predecessori. Nel pensiero di Barack Obama, infatti, la diversità è secondaria alla qualità, presunta che sia, un errore comune agli oppositori delle pari opportunità e le azioni affermative.
Gli afro-americani sono una nazione di 40 milioni di individui in un paese di 320 milioni. L’uscita dalla crisi finanziaria e la ripresa economica non hanno mutato le condizioni delle comunità nere dove permangono aggravate tutte le diseguaglianze derivate da una cultura nazionale percorsa dalla differenza razziale. Le promesse di leadership trasformativa e riforme radicali sono rimaste ampiamente disattese e il paese vive un confronto diffuso segnato dall’incremento di fatti di cronaca che solo nell’ultima settimana hanno registrato la tragica morte di due afro-americani per mano delle forze di polizia e la efferata conversione in violenza di una dimostrazione pacifica con lo slogan di Black Lives Matter a Dallas.
Eddie Glaude Jr., emerito docente universitario di studi afro-americani a Princeton, in un recente libro su quella che definisce la “democrazia in nero”, descrive la fase attuale come “la grande depressione nera” per parlare del livello di devastazione degli indici di benessere della popolazione afro-americana. I numeri sono brutali: nel 2008 la ricchezza bianca era 13 volte maggiore di quella nera, nel 2010 il tasso di disoccupazione afro-americano era al 16 percento, nel 2011 gli afro-americani hanno perso il 50% della loro ricchezza. A oggi il 38 percento dei bambini neri vivono in povertà e ci sono più bambini neri poveri che bambini bianchi poveri, quando negli Stati Uniti i bambini bianchi sono tre volte più numerosi dei bambini neri. L’America bianca consolida la ripresa, mentre quella nera prosegue in direzione opposta con perdita di ingresso, disoccupazione di lungo termine e incremento della povertà.
Glaude si riferisce a un gap valoriale, che potremmo anche chiamare con il più noto termine di “supremazia bianca”, che governa lo scacchiere dei sistemi politici ed economici, passando per gli apparati educativi e sanitari, e atrofizza la realizzazione di una genuina democrazia multi-razziale. Questo gap fa di Barack Obama, di lui stesso e altri illustri afro-americani, singolarità in un “deserto di opportunità” per la maggioranza estromessa. A suo parere, esiste anche una complicità della classe politica nera in tutto ciò e nei molteplici modi in cui Martin Luther King è stato usato ideologicamente. Lo stesso discorso sulla razza di Obama a Philadelphia è tessuto sul filo della narrazione dell’eccezionalità americana – così come quello alla convention di Kerry e il libro autobiografico, dove la storia del presidente viene spiegata come il frutto della grandezza degli Stati Uniti, impedendo di trattare il nocciolo della questione con onestà ed efficacia.
A detta di altri critici, che sono stati i suoi più leali e potenti sostenitori nelle due elezioni, Obama ha agito in forma “strategicamente disattenta” sull’accidentato terreno della razza. E’ stato inoltre guidato da un’elaborazione secondo la quale per i neri non debbano essere adottate soluzioni specifiche, disegnate sulla loro condizione di doppia vulnerabilità – o tripla nel caso delle donne, bensì da piani universali diretti a tutti i cittadini in circostanze di indigenza, disagio o esclusione. Una semplificazione conformemente alla quale se gli Stati Uniti prosperano, lo fanno anche i poveri; e se prosperano i poveri, avanzano anche i neri; in definitiva, un appianamento della realtà che rende Obama più bianco dei bianchi. Del resto, persino il sociologo, William Julius Wilson, dal quale Obama ha dichiarato di aver plasmato la sua posizione, nel suo ultimo lavoro pubblicato nel 2009, ha cambiato diametralmente opinione, mettendo in rilievo le complicazioni e gli ostacoli per le politiche sociali derivanti dall’intersezione delle questioni razziali e quelle economiche.
La politica afro-americana aveva subito una contrazione dall’inizio del ventesimo secolo, quando negli anni ‘20, ‘30 e ‘40 si era sviluppata un’intensa vita associativa, dalla dimensione civica all’espressione di tutti i tipi di orientamento politico, fino ai congressi pan-africani. Obama è apparso come una rinnovata speranza, e con lui è decollata una mobilitazione elettorale senza eguali, tuttavia parte della sua constituency è delusa e gli addebita mancanza di visione, coraggio e azione a beneficio dei più poveri. Per questi americani, Obama non ha rappresentato il risveglio democratico ed egualitario proclamato all’epoca della campagna presidenziale. Gli contestano a cosa sarebbe servito il 90 percento del loro voto se durante gli anni dei suoi due mandati non è stato possibile dialogare sulla sostanza delle problematiche delle comunità, non sono state promosse politiche di impatto sulle condizioni di vita e la loro situazione è indiscutibilmente peggiorata. L’atteggiamento dell’amministrazione Obama è sempre stato unidirezionale nel richiedere che la comunità afro-americana non lo giudicasse dal punto di vista di un presidente nero per i neri, ma allo stesso tempo aspettandosi tutto il supporto incondizionato proprio dalla comunità nera in quanto presidente nero.
Negli Stati Uniti si sta consolidando un movimento che imputa al Partito Democratico di aver sempre considerato gli afro-americani come un elettorato captivo, non avendo questi altra formazione a cui accudire, e di non essersi mai sentito responsabile di attuare misure pubbliche rilevanti per questo segmento della popolazione. Tale movimento considera che la propria partecipazione nel processo democratico sia distorta. Gli elettori afro-americani di Obama, fra cui le élite intellettuali, hanno lanciato un’azione civile di boicottaggio del voto, conosciuta come Blank-out Campaign, per creare discontinuità con il modo di procedere della classe politica nera e del Partito Democratico. Questi elettori non vogliono essere di nuovo coinvolti nel business as usual, cercano di aprire spazio per il dissenso. Oltre il ciclo elettorale sono decisi a capire e decidere con che tipo di potere avranno a che fare e il Partito Democratico non è più un’opzione ovvia. Fallito il Yes We Can, e la leadership nera del mainstream, di cui Obama è il massimo esponente, e con l’azione di governo per i diritti civili a un angolo, gli afro-americani fronteggiano un’emergenza politica.
La “rivoluzione dell’immaginazione” di Glaude, per cambiare il paese che in base alla sua tesi Obama non ha convincentemente contribuito a cambiare, parte anche da tre giovani afro-americane di enorme valore, Alexis Templeton, Brittany Ferrell, e Ashley Yates, fondatrici di Millennial Activists United, in prima linea dal 2014 contro l’ingiustizia razziale e la brutalità della polizia negli Stati Uniti, attraverso azioni di disobbedienza civile pacifica. La loro capacità di mobilizzazione dal basso è straordinaria e hanno condotto a marciare per le strade migliaia di individui che non avevano mai prima esercitato alcun tipo di attivismo. Ferrell, Templeton e Yates hanno portato il loro messaggio a livello nazionale con risoluta forza morale, un’instancabile dedizione all’uguaglianza e la dignità umana, e un significativo rischio personale. Questo è il movimento per i diritti civili del ventunesimo secolo, questo è al momento la narrativa più vibrante sui diritti umani dei neri d’America, la denuncia più ferma contro una cultura dominante che non hai mai smesso di marginalizzare e sminuire il valore della vita degli afro-americani.
Il movimento, che conta con 37 gruppi e decine di migliaia di sostenitori, soffre in questi giorni la crisi più dura della sua breve storia nel cercare di distanziarsi dall’attacco sulla polizia del cecchino di Dallas, difendersi dal coro di detrattori che lo accusa di esserne l’ispiratore, e mantenere l’appoggio di quanti si sono gradualmente avvicinati alla causa e ai suoi metodi di confronto, anche provocatori, dove per esempio nelle manifestazioni vengono inscenate le uccisioni delle vittime disarmate. Gli afro-americani ben conoscono i tentativi ripetuti di discredito dei gruppi per i diritti civili, e i loro leader, e la rimozione di una difficile verità. Al contempo, hanno visto crescere un’onda xenofoba verso i messicani, anti-islamista, e di crescente ostilità nei loro stessi confronti, che ha alimentato l’ascesa di Donald Trump, senza che vi fosse una voce autorevole che si alzasse per offrire un’alternativa vigorosa a questa concezione angusta e rissosa dell’identità e della convivenza inter-razziale.
Ciò nondimeno, il concorso di Obama alla campagna per la Casa Bianca di Hillary Clinton, potrebbe accordare al presidente uscente la possibilità di abbordare il razzismo che non è mai stato pronto a riconoscere o confrontare e che costituisce lo zoccolo duro dei simpatizzanti di Trump. Libero dal ruolo di garante della nazione, e dal timore di allarmare l’America bianca, abbandonata ogni esitazione, finalmente si convertirebbe in un poderoso campione della giustizia razziale.