Il Rebetiko e le Lezioni della Storia
Se siete capitati qualche volta in Grecia, e non avete passato le vacanze a bere spritz in un locale à la page gestito da italiani, forse vi sarete imbattuti in quella che per il turismo disattento è approssimativamente “musica tradizionale”. Vi sarà sembrato di vedere un mandolino, magari l’avrete chiamato banjo; in realtà, quello che suonava era un bouzouki, membro della famiglia dei liuti dal collo lungo, tricorde nella sua espressione originale, strumento principale del rebetiko che ha spopolato fino agli anni ’50, e che oggi è parte intrinseca dell’identità nazionale ellenica. Qualcuno saprà che la scena di apertura di Pulp Fiction di Tarantino scorre sulle note dell’arrangiamento di un motivo rebetiko di Nikos Roubanis del 1930.
In qualche ristorante, vengono proposte ai turisti pezzi al microfono con l’accompagnamento di una pianola elettrica dal sapore cliché. Tutto dipende dall’educazione musicale di ognuno, ma io direi di darvela a gambe. Questo è un genere acustico – a meno di sperimentazioni plugged in da parte di chi sa manipolare questa delicata materia dell’anima, cantato dove arriva la voce, scandito dal tintinnio dei bicchieri, il battito delle mani, e il pestare dei piedi, di coloro che ascoltano e danno forma a danze impromptu, quasi elementi aggiunti della compagnia.
Il rebetiko è uno degli elementi fondativi della cultura greca. Musica dei poveri e degli oppressi, ha attraversato decadi di protesta sociale, contestazione studentesca, resistenza politica e insurrezione popolare, e durante la crisi economica, ha fatto da colonna sonora alle piazze contro l’establishment finanziario. La sua autenticità perdura dove persiste il suo soffio libertario, la poesia involontaria dell’esistenza – anche nel fondo dell’abisso, il coraggio di uscire dagli stereotipi. Bisogna andarselo a cercare e arriva come una conquista personale.
Fiorito nelle taverne e i cabaret dei porti di Salonicco e Atene, nei postriboli, le tekes – locali per i fumatori di hashish, e le patrie galere, è il mondo dei reietti e degli emarginati, di un’umanità disperata, spinta ai limiti delle città e della legalità. Narra l’esilio, l’impotenza, la perdita, la notte, l’alcol e le scommesse, le illusioni, il fato, la deprivazione, i sogni, i piaceri semplici, l’amore, la prigione, e la morte. Il termine deriva dal turco rebet che vuol dire “ribelle” o “disubbidiente” e ruota intorno all’attitudine, lo stile, e il modo di vivere dei manghes – guappi della Grecia dei bassifondi, tenuti in grande sospetto per il loro slang astruso e ostile e i comportamenti equivoci.
Per la classe borghese e rispettabile rappresentavano una sordida minaccia alla morale comune. Le canzoni vennero bandite per la loro matrice licenziosa, irriverente e antagonista, e la persecuzione dei musicisti divenne una delle principali attività della polizia. Raid e perquisizioni nelle tekes, distruzione di strumenti e arresti, si sono tristemente susseguiti, in special modo nel periodo di censura di Metaxas (1936-1941). I rebetes però non si fermavano nemmeno nelle celle. Assemblavano qualsiasi materiale trovassero, o riuscissero a far entrare nelle carceri, per fabbricare baglamas, strumenti di piccole dimensioni, che potevano essere nascosti con facilità.
Mentre il genere maturava, la società greca si impoveriva, passando attraverso l’occupazione nazista, la guerra civile, la dittatura dei colonnelli; e il rebetiko dette voce a una nazione intera. Nel decennio 1942-1952, venne sdoganato e riconosciuto come patrimonio del paese. Ma le radici di questa storia affondano fin negli eventi della caduta di Costantinopoli del 1453, la dominazione turca, la guerra di indipendenza dall’impero ottomano (1821-1832), dopo quattrocento anni di feroce tirannia, e le posteriori campagne militari. Già dalla fine dell’ottocento, le fila dello sregolato movimento rebetes erano ingrossate da veterani disoccupati, rifugiati e sfollati per le conseguenze della violenza, perdurate sino alla fine del secolo scorso, in un continuo migrare di sonorità, strumenti e suggestioni, dall’Anatolia alla Grecia.
La Grecia entrò nella prima guerra mondiale a patto dell’appoggio degli alleati per l’annessione della parte costiera della Turchia, dove vivevano estese comunità microasiatiche – greci originari dell’Asia Minore e del Ponto, che in quell’area costituivano la maggioranza degli abitanti e vantavano una storia plurimillenaria. La loro presenza risaliva all’XI secolo a.C. ed erano state vittime di ripetute persecuzioni fino alle espulsioni forzate a partire dal 1914. Nella conferenza di pace di Parigi del 1919, il primo ministro, Eleftherios Venizelos, ottenne il permesso di invadere Smirne, dando inizio al conflitto greco-turco, visto come il completamento della guerra di indipendenza.
La sua sconfitta alle elezioni, e il sostegno di Francia e Russia al nascente stato laico di Kemal Ataturk, rovesciarono le sorti dei contendenti. Solo l’Inghilterra rimase al fianco della Grecia tuttavia in maniera sempre più tiepida. La Turchia riprese possesso dei territori in un primo momento perduti e per la Grecia fu la disfatta. I civili, abbandonati da quelli che dovevano essere i loro liberatori, affrontarono la furia vendicativa del nemico. Ripararono in massa a Smirne, a prevalenza cristiano-ortodossa. Le truppe turche prima razziarono la città, poi la incendiarono, in molti furono costretti a gettarsi in mare, dove finirono per affogare.
L’armistizio di Mudanya, e il successivo trattato di Sevres nel 1923, stabilirono lo scambio dei gruppi etnici, secondo il quale 800 mila turchi lasciarono la Grecia (l’intera cittadinanza musulmana), mentre più di 1 milione e 200 mila microasiatici tornarono in un paese con cui condividevano lingua e religione, ma che non era il proprio. Fu un esodo biblico, se si considera che il totale della popolazione in quel momento era di 6 milioni e 500 mila persone. Gli sfollati si riversarono nei centri urbani. L’assimilazione fu lenta, dolorosa e carica di difficoltà. I loro destini si mischiarono con quelli dei rebetes. Venne importato lo stile smyrnaiko e la contaminazione fece transitare nel trascorso del tempo il rebetiko da musica della mala a musica popolare.
La cultura popolare di Grecia e Turchia è stata talmente intrecciata che 300 mila musulmani turchi negli anni ’90 parlavano ancora pontico, oltre alla presenza di una comunità ellenica a Istanbul – antica Costantinopoli; e nel 2005 in Grecia sopravviveva il cappadocio e il turco karamanli – turco scritto in caratteri greci. Le ballate arcaiche hanno versioni in greco e turco, o in turco con parole greche e viceversa; esistono anche gli amanades che si dispiegano in greco sull’andamento del richiamo alla preghiera del muezzin. Anche bouzouki è parola turca, ma lo strumento esisteva già cinque mila anni prima con il nome di pandouris nella Grecia classica.
Negli anni trenta e quaranta, fra la classe lavoratrice, si aprono la strada compositori indimenticati: Markos Vamvakaris, Vassilis Tsitsannis, Manolis Chiotis, Yannis Papaioannou, e Stellakis Perpiniadis; quasi eroi dell’età moderna. Rebetes assume un significato intrinseco di intellettuale della vita. L’emigrazione negli Stati Uniti giocò un ruolo determinante per la conservazione, lo sviluppo e il proseguimento del rebetiko. Ci sono registrazioni risalenti al 1896 e la prima casa di produzione di immigrati greci è del 1919, molti anni prima che si effettuassero incisioni nella madre patria. Questi lavori influenzarono gli autori degli anni trenta in Grecia, incluso il capostipite Vamvakaris. Soprattutto, fu possibile continuare a diffonderne le liriche – la censura imposta da Metaxa e la junta (1967-1974) venne revocata in via ufficiale solo nel 1981.
L’accettazione e il successo dagli anni cinquanta in poi impone le regole del vasto pubblico e la commercializzazione attraverso l’industria discografica negli anni sessanta ne mette fine all’originalità. Il miglioramento della situazione economica, la diminuzione della povertà, la nascita della classe media, e l’educazione di massa, spazzano via il sostrato che aveva alimentato la condizione dei rebetes e il suo spirito. Rimane uno sterminato e vitale repertorio che unisce e dialoga con tutte le generazioni.
In questo andare e venire, oltre le frontiere, la presunta purezza delle identità, il delirio della supremazia religiosa, e la competizione per il controllo geopolitico, ha preso corpo un suono aspro e struggente che parla una sola lingua. Le migrazioni dei popoli portano con sé il seme di enormi possibilità e grandi verità.